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il giubileo e la penitenza
“Nelle religioni antiche la penitenza ha il fine di ristabilire le condizioni precedenti alla colpa mediante pratiche di purificazione o di eliminazione della causa del peccato, oppure mediante riti penitenziali”: così si legge nel vocabolario Treccani online.
Per noi cristiani cattolici, “Penitenza” è il nome del quarto sacramento, destinato alla conversione e al perdono dei battezzati che, avendo peccato gravemente, han-no seriamente compromesso la loro comunione con Dio e con la Chiesa. Ma il ter-mine “penitenza” indica anche il momento nel quale il penitente compie gesti —penitenziali, appunto — il cui scopo è riparare al male fatto e manifestare il desiderio di cominciare una vita nuova. Oggi, di solito, questi gesti si esauriscono in qual-che preghiera indicata dal confessore. Nei primi secoli del cristianesimo, invece, le penitenza erano piuttosto impegnative e, oltre alla preghiera, consistevano in gesti di elemosina e digiuno.
L’esigenza di fare penitenza anche dopo aver ricevuto il perdono di Dio nell’assoluzione è legata al fatto che, “come sappiamo per esperienza personale, il peccato “lascia il segno”, porta con sé delle conseguenze” (papa Francesco). Nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri, infatti, i peccati lasciano un’ “impronta negativa”: abitudini cattive, disordine degli affetti, debolezza della volontà, inclinazione a ri-cadere nel peccato… E questa “impronta negativa” resta non solo in noi ma anche attorno a noi: pensiamo ai disastri che certi comportamenti sbagliati (prepotenza, violenza, chiusure egoistiche, dipendenze…) provocano là dove vive chi di tali comportamenti si rende responsabile. Evidentemente, anche dopo che il peccatore pentito ha ricevuto il perdono di Dio, l’ “impronta negativa” rimane e, per quanto possibile, va “riparata” grazie a un cammino di conversione.
Oltre che in gesti di preghiera, elemosina e digiuno, il percorso penitenziale “si esprime nella fedeltà perseverante ai doveri del proprio stato, nell’accettazione del-le difficoltà provenienti dal proprio lavoro e dalla convivenza con gli altri, nella paziente sopportazione delle prove della vita” (Paolo VI).
don Luca